Il triste epilogo del Calcio Catania visto dagli studenti

di Matteo Catania

Le vicende sportive e dunque economiche del Calcio Catania sono sempre state un argomento di mio grande interesse, per motivi strettamente personali. Da tre generazioni la mia famiglia segue con passione e coinvolgimento emotivo le realtà calcistiche nate e maturate nel territorio catanese: il primo fu mio nonno che nel lontano 1942, alle porte del secondo conflitto mondiale, giocava come punta degli “Audaci”, una delle matricole sportive esistenti durante il ventennio fascista. Egli nacque alla Civita e fu residente, fino alla sua dipartita, a Cibali, secondo quartiere popolare in ordine anagrafico e cuore pulsante del Calcio Catania 1946 solo qualche anno dopo la fondazione del club (mi diceva infatti mio nonno che, nei primi anni successivi alla fondazione, si giocasse nella zona adiacente alla stazione della Littorina, l’attuale piazza Abramo Lincoln). Mio padre visse la gloriosa promozione degli anni ’80, seguì le vicende del “Presidentissimo” Angelo Massimino e assistette a dei momenti di crisi scongiurati dall’amministrazione della famiglia Gaucci. Ricordo con nostalgia l’avvento di Antonino Pulvirenti ed i miei primi ricordi più lucidi sono legati al campionato di vertice in serie B del 2005/2006 che portarono, l’anno seguente, il Catania in serie A. Non entro nel merito della gestione Pulvirenti e delle scelte drammatiche, seppur nell’intenzione di recare successo all’azienda e quindi alla squadra, che portarono il Catania alla lenta agonia conclusasi lo scorso Sabato, né credo sia questo il contesto ideale per discutere circa l’efficacia degli interventi postumi all’avvicendamento della proprietà (aggiungo, in maniera provocatoria, che l’unica gestione degna di nota et in termini di cura del bilancio et in termini di risultati sportivi sia stata, paradossalmente, l’ultima a cura dei commissario giudiziale). Mi limito invece, sperando di essere esaustivo, a tracciare un’analisi socio-economica del fenomeno sportivo, nello specifico calcistico, nella nostra città.

Oggi mi sono trovato in disaccordo con un mio Maestro e noto intellettuale catanese, Ottavio Cappellani, che scriveva a proposito del fallimento del calcio Catania con un tono sarcastico (ci mancherebbe) e meramente tecnico-aziendale. Molte persone, d’altronde, guardano alle aziende sportive dalla stessa prospettiva dalla quale si giudica qualsiasi altra azienda presente nel mercato: al loro profitto, ai lavoratori, alle infrastrutture generate, ecc. Benché io mi ritenga estremamente pragmatico e cerchi di mantenere una visuale scevra da coinvolgimenti etici ed emotivi per comprendere struttura e processo dei fenomeni, questo è un particolare caso che, a mio avviso, fa eccezione. Il calcio è il primo sport italiano per seguito e per pratica e, come in ogni paese del mondo, finisce per essere condizionato dalla dimensione sociale e politica del contesto di riferimento. Pensiamo alla nascita delle guerre balcaniche, alla partita del 13 maggio del 1990 tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa[1], alle rivendicazioni sociali di Napoli contro il potere politico ed industriale della Juventus di Gianni Agnelli (si dice che, durante i famosi mondiali della “mano de Dios” dell’86, la maggior parte dei napoletani tifasse Argentina) in un’Italia ancora troppo giovane e culturalmente disunita (nel decennio successivo nacque il fenomeno separatista della Lega Nord di Umberto Bossi). Si dice, altresì, che il calcio moderno prenda origine dal calcio fiorentino che nacque, storicamente, per vedere quale fosse il quartiere popolare più importante organizzando delle lotte fuori dalle mura medievali delle città. Si dice che “il calcio non è solo un gioco” e, per la sua dimensione socioculturale, non può essere altrimenti.

Non possiamo prescindere dal coinvolgimento emotivo della gente verso un fenomeno che, specificatamente a Catania, è stato per qualche anno l’unico vessillo che legittimasse l’onore (e l’onere) della nona città d’Italia. Lo share televisivo delle partite in serie A, in tutto il mondo, era inferiore solo alle grandi big (Inter, Juventus, Milan, Napoli e Roma) e lo stadio, per quanto ricordi, era uno dei più affollati d’Italia a tal punto che faticassero abitualmente pure i blasoni (ricordo, a suo malincuore, l’unica sconfitta dell’Inter del triplete in una notte di pioggia battente in cui il fattore campo e l’assenza di Mourinho in panchina, decisero la partita). Il Calcio Catania 1946 e la prima gestione del presidente Pulvirenti il quale tesseva parte delle fila commerciali catanesi con la Windjet ed i supermarket Fortè (ed altre attività nel campo turistico) generarono un importante indotto in termini lavorativi, in infrastrutture (Torre del Grifo fu per almeno un decennio il centro sportivo più innovativo del mezzogiorno) ed in visibilità della città tali da creare un modello per le altre piccole società del sud Italia, e non solo: il vivaio, riconosciuto come centro federale, venne introdotto con largo anticipo rispetto ai vivai di Atalanta e Sassuolo, per citare due delle realtà oggi in auge. A Catania fede e sport trovarono connubio[2] ed il Catania divenne, compatibilmente alle poche occasioni di orgoglio e vanto sociale con realtà più ricche ed industrializzate dell’Italia centro-settentrionale, un fattore che generò senso di appartenenza socialmente trasversale (in tribuna sedevano avvocati e commercianti fianco a fianco). Finalmente la città aveva, così come avviene a Maranello con la Ferrari, un motivo di vanto ed orgoglio a livello nazionale, il riscatto di una gloria tanto attesa e promessa (rispetto a potenzialità economiche ed ambientali) ma mai realizzata. Ricordo, tramite racconti, quanto avvenne negli anni ’90 quando Catania era definita la Seattle del sud e riusciva, grazie al magnifico lavoro di Francesco Virlinzi attorno al quale si istituì un seguito quasi calcistico di appassionati, a veicolare cultura, musica ed arte alle pendici dell’Etna (celebre fu il concerto dei R.E.M. del 1995[3]). Tali fenomeni hanno cercato di emancipare Catania dalla sua dimensione provinciale verso una dimensione, culturale, sociale ed economica, che le compete. Il calcio, a Catania, non sarà mai solo sport: agli imprenditori che verranno l’onore ma soprattutto l’onere di fare i conti con un business con grandi potenzialità (basti vedere la parabola commerciale di Pulvirenti) ma che richiede l’accountability con una realtà stanca, pretenziosa ed in attesa di palcoscenici che le competono. Sarà forse questo il motivo per il quale è difficile creare interesse attorno al calcio a Catania?


[1] La chiamarono “La partita che preannunciò la guerra in Jugoslavia” disponibile al seguente link: https://www.ilpost.it/2020/05/13/dinamo-zagabria-stella-rossa-1990/

[2] Leggevo, tempo fa, che nei giorni antecedenti alla partita tra River Plate e Boca Juniors, le chiese fossero affollate per giorni a qualsiasi ora: allo stadio assistetti in prima persona a riti scaramantici al limite tra la fede ed il grottesco, per chi attribuisce valore a tali eventi.

[3] “Quando Catania era la Seattle d’Italia” a cura di Nicola Savoca, 2019, Il Corriere della Sera. Disponibile al seguente link: https://www.corrieretneo.it/2019/01/26/speciale-musica-quando-catania-era-la-seattle-ditalia/#:~:text=Il%206%20agosto%20del%201995,band%20internazionale%20tiene%20in%20Italia.

di Mattia Distefano

Da tifoso del calcio Catania 1946 matricola 11700, sono estremamente deluso ma il tema principale di questa email è l’impatto socio-economico della squadra. Il fallimento del club rossoazzurro peserà notevolmente sull’aspetto disoccupazione. Partendo dallo stadio perderanno il lavoro i fotografi, i giardinieri, i piccoli chioschi all’interno che durante la pausa primo tempo vendevano moltissime bottiglie di acqua, gli addetti all’impianto, gli steward. Non riuscirei a immedesimarmi in queste persone che, probabilmente, essendo catanesi ed eventualmente tifosi, praticando la loro professione con cuore, hanno perso in primo luogo il loro lavoro e in secondo luogo la motivazione nel credere nel loro lavoro. La voce di Stefania Sberna riportata in vita dalla figlia sarà persa per un bel periodo. Torre del Grifo sarà desolata: il personale che si occupava della squadra sarà anch’esso presumibilmente licenziato; il vivaio rosso blu non esiste più e i giovani calciatori saranno costretti ad affiliarsi ad altre squadre magari controvoglia poiché affezionati alla maglia. Partire dai campionati più bassi sarà difficile, già l’economia del club era messa in difficoltà sia per i motivi derivanti dai debiti sia perché la vendita degli abbonamenti era calata drasticamente, molte presenze nelle due curve ma pochissime nelle tribune. Ciò è avvenuto sia a causa dei tifosi medi che hanno deciso di aspettare direttamente l’esordio del Catania in serie A senza supportare la squadra in questo momento difficile ma anche per la delusione da parte di alcuni veri tifosi che hanno preferito distaccarsi dal club prima del suo infossamento. La società si è quindi trovata in mancanza di entrare fisse, il che era impensabile durante l’età dell’oro catanese durata dal 2011 al 2014 in serie A. Sulla città di Catania questo fallimento avrà senza dubbio ripercussioni economiche. Durante il periodo in serie A, le tifoserie approfittavano della partita con il Catania per fare un piccolo soggiorno nella città smuovendo quindi l’economia metropolitana. Bar, ristoranti e musei ospitavano tanti turisti provenienti da tutte le parti d’Italia, chi veniva con intere famiglie, chi veniva solo con gli ultras per supportare la squadra ma sicuramente avranno assaporato la cucina catanese. Le maglie del Catania con il nome del proprio giocatore preferito non saranno più in circolazione, partendo dalle bancarelle in via etnea sino ad arrivare ai negozi del club (già precedentemente falliti). In serie C si sono registrati piccoli movimenti di tifoserie avversarie in giro per Catania e il turismo calcistico è andato via via scemando.  In  Catania -Monopoli dell’anno scorso lo stadio stava esplodendo mentre quest’anno le presenze della città barese erano scarsissime seppur la squadra fosse in forma. Questo ottobre sono andato a Napoli e al ritorno sull’aereo c’erano più di 10 ragazzi della mia età che da Castel a mare di Stabia stavano prendendo l’aereo per assistere alla partita. L’indomani li ho rincontrati, erano poco più di 50 e se pensiamo a un Catania -Cagliari di qualche anno fa (partita “noiosa”) le presenze erano alle stelle. Da tifoso posso dire che aldilà del supporto contro qualsiasi squadra, se sono a conoscenza della situazione finanziaria della squadra avversaria, sarei meno invogliato ad andare a vedere la partita perché non sarebbe “equa”. Il peso della situazione societaria è pesata molto sui giocatori che hanno continuato però a crederci fino all’ultimo e credo siano i veri vincitori del campionato. La decisione del fallimento del Catania è stata inoltre presa in un momento sbagliato perché tra poche settimane si sarebbero disputati due grandi derby ; Palermo-Catania e Catania-Messina. Sono riusciti a bloccare quel piccolo giro di turismo che si sarebbe venuto a creare perché è più che risaputo che sono due partite in cui ogni singolo tifoso, accompagnato da amici e familiari, scende allo stadio per essere partecipe di tale spettacolo. Durante l’ultimo derby erano presenti le scuole calcio palermitano e sicuramente avranno portato i bambini a mangiare da qualche parte facendo girare un po’ l’economia e questo sarebbe potuto succedere nuovamente per l’ultima partita di campionato  contro il Messina ma non sarà così. Una decisione da digerire ma presa sicuramente nel momento sbagliato. Il fallimento del  Calcio Catania è stata una perdita nel cuore di ogni catanese ma anche una perdita nel settore economico metropolitano.

di Giovanni Basile

Questo non è solo il fallimento del club, ma dell’intera città di Catania. Ma vorrei porre la questione su un qualcosa di più grande e cioè la mentalità che ancora vige nella realtà del calcio italiano e soprattutto meridionale. Credo che questo fallimento sia proprio la rappresentazione che tutto il sistema non funziona a dovere, che ormai il campionato di Serie C è diventato un bersagliere pronto a far fuori le sue 5-10 squadre alla fine dell’anno e tutte per lo stesso motivo. Un campionato che ormai è diventato di un livello veramente basso e che confrontato con le stesse realtà di paesi esteri, farebbe davvero pietà. L’esempio più facile è in Inghilterra dove squadre della Serie C inglese arrivano a giocarsi una qualsiasi partita della fase finale di FA Cup contro le ben più blasonate squadre di Premier League, mentre qui si fa fatica pure a far partecipare le squadre in Coppa Italia e si rimedia con una Coppa Italia Serie C che sa tanto di contentino e non porta sostanzialmente nulla (per carità anche in Inghilterra c’è una controparte del genere, ma la finale si gioca a Wembley e davvero conta qualcosa quel trofeo). C’è un gap impietoso a livello di strutture (anche se Torre del Grifo è un’eccezione e questo mette ancora più tristezza), a livello di organizzazione e anche a livello di mentalità: purtroppo si deve riconoscere che il calcio meridionale è decenni indietro rispetto al nord e rispetto alla controparte europea. Trovo quasi disperato dare fiducia a un uomo che ormai fa parte da anni della lista nera della FIGC (ovviamente mi riferisco a Mancini che, come ampiamente prevedibile non ha rispettato i termini di pagamento e non si è fatto neanche vedere il giorno della conferma del fallimento, in pieno stile italiano). Trovo altrettanto disperato affidarsi a gente che pensa palesemente alle proprie tasche senza curarsi degli interessi del club e del territorio circostante (Lo Monaco per intenderci affossando in più o meno 5 anni due squadre). E trovo triste vedere la tifoseria catanese che ci ha pure rimesso di soldi per tenere la propria squadra in vita, con tutto che anche qui avrei da ridire: è ora di staccarsi dal ricordo del Catania che batteva l’Inter del triplete o che arrivava ottavo in campionato, perché come abbiamo potuto vedere con realtà ben più grosse del nostro calcio, la Nazionale per intenderci, vivere troppo nel ricordo senza vedere la realtà è anch’esso un fallimento. 

Detto ciò, spero che il Catania riparta con delle basi ben più solide, con una società forte, innovativa e che contribuisca anche alla crescita del territorio circostante, anche se temo che sarà un percorso lungo e tortuoso e che il campionato di Serie D dell’anno prossimo, non sarà propriamente di passaggio. 

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