Le difficoltà dell’Italia meridionale a diventare un terreno fertile per gli incubatori di Startup. Un problema culturale

di Matteo Catania

L’articolo 41 della Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, garantisce al comma 1 la libertà economica in Italia definendo, con assolutezza, un assioma: “l’iniziativa economica privata è libera”. La genesi della libertà economica della società europea prima, ed occidentale e mondiale dopo, è rinvenibile nel lungo processo che ha origine nella riforma protestante del 1517 dalla quale Max Weber nel 1919 definì la genesi del capitalismo, a quasi quattro secoli di distanza; nel 2005 il politologo Rodney Stark anticipò la soglia posta da Weber definendo il mercantilismo italiano come il big ben del capitalismo[1]. Lo stato moderno del 1500 aprì le porte alle richieste della gentry (che nascondeva i prodotti per evitare tasse e predazione, secondo la teoria posta da Bates e Lien[2]) alla richiesta del Bill of Rights del 1689 del “no taxation without rappresentation” alla rapida escalation che diede natali allo stato liberale che doveva fungere esclusivamente da guardiano notturno per favorire il mercantilismo e le attività economiche della classe borghese.  L’Italia non ebbe il tempo di diventare nazione (1861) che, esclusa la parentesi liberale giolittiana, fu travolta dal ventennio fascista e solo posteriormente alla caduta del regime, nel secondo dopoguerra, venne composta la Costituzione Repubblicana. Le diverse anime che diedero genesi al testo erano portatrici di posizioni filosofiche radicalmente differenti benché la contingenza li forzasse a trovare una rapida ed efficace risposta alla ingente richiesta di rappresentatività democratica, repubblicana (a fronte del referendum del 1946) e costituzionale (per evitare nuove derive autoritarie) del paese. Il comma 2 dell’articolo 41 limita subito le richieste avanzate dai padri costituenti liberali, tra i maggiori Einaudi e Croce, costruendo un recinto murario entro il quale la libertà economica dovesse muoversi: “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Si aggiunge ancora al terzo ed ultimo comma: “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”. I limiti imposti dalla prospettiva di matrice socialista e marxista (l’utilità sociale) relega l’articolo alla dimensione di mero, seppur ambizioso, proposito ostracizzato e limitato dall’ala socialista che, nonostante il seguente ventennio della golden age, del boom economico, ritornò in auge negli anni di crisi post ’68 che diedero all’Italia lo statuto dei lavoratori (’70) ed importanti strutture ai sindacati che rivendicavano rappresentanza e potere decisionale a seguito della dilaniante parentesi fascista. Mentre in Italia (e più in generale nell’Europa meridionale) si vivevano quotidianamente delitti politici realizzati da movimenti e partiti extraparlamentari di matrice socialista (si estrema destra ed estrema sinistra) e si cercava di scongiurare l’idea di possibili golpe militari, in altre parti del mondo il pensiero liberista si evolveva ed assicurava i mezzi affinché la libertà economica e d’impresa diventasse prassi quotidiana. Sebbene sia da sempre l’avanguardia della libertà economica, la lunga eredità delle politiche economiche del passato ha lasciato agli Stati Uniti dei grossi problemi nel mercato del lavoro e nell’organizzazione aziendale (l’Internazionale riporta, nel numero del 21 Giugno, un importante dossier del Wall Street Journal a proposito della difficoltà dei sindacati di penetrare nel contesto economico americano, a proposito dei referendum tra i lavoratori negli stabilimenti Amazon in Alabama, Bessemer e Staten Island) e all’Inghilterra una pesante eredità generata dai conflitti tra labouristi e liberali (placati, con molte critiche, da Margaret Thatcher). L’Italia non è mai stato, pertanto, un contesto favorevole in cui le idee liberiste e liberaliste (spesso ostacolate dalla morale cristiana) potessero affermarsi con forza, nella prassi (libera iniziativa economica) e nella teoria (di politica economica). L’eredità filosofica, politica ed economica delle generazioni post-repubblicane limita la libertà economica e d’impresa ancora oggi. Rispetto alla questione formale e sostanziale che regola in maniera adamantina l’uguaglianza, all’articolo 3 della Costituzione, non esiste un principio che regoli formalità e sostanzialità della libertà d’impresa, che cerchi dunque di eliminare tutti gli ostacoli culturali e legislativi che la limitano. I recenti dati forniti dalla Heritage Foundation a proposito della Libertà economica dei paesi europei, colloca l’Italia solo al sessantottesimo posto ed è considerato come un paese “moderatamente libero”[3]. Le difficoltà sono, certamente, condizionate da una differenza radicale del sistema economico italiano rispetto a quello delle nazioni che la precedono; una prospettiva sistemica del fenomeno ci ritorna, altresì, una realtà nella quale l’impresa e soprattutto gli imprenditor sono meritevoli, nell’immaginario collettivo, di ingiurie ed attributi negativi di ogni specie.

Crescita economica e Startup

Nel campo della scienza della politica Rostow e Gerschenkron proposero negli anni ‘60 la loro Teoria degli stadi (o teoria della modernizzazione) secondo la quale tutti i paesi vivono dei processi analoghi di crescita economica (e sociale, con la rivisitazione degli anni successivi) e che tali evoluzioni socio-economiche favoriscano la democratizzazione dei paesi coinvolti. In termini economici potremmo affermare che le nazioni, rispetto a tale crescita, vivano le medesime fasi di sviluppo ed innovazione anche nei processi che strutturano il mercato: così tutte le società occidentali e poi mondiali hanno vissuto la rivoluzione mercantilista, taylorista, capitalista e post-fordista. Il mondo delle startup rappresenta, a detta di molti studiosi, una ulteriore tappa del progresso economico mondiale: le startup diventano un modello di riferimento per le figure professionali che orbitano attorno al mondo dell’economia che prima transitavano nelle imprese di stampo tradizionale. In Francia, ad esempio, durante il suo primo mandato politico, Emmanuel Macron, riconfermato all’Eliseo nei giorni scorsi, fece delle startup la sua priorità economica ed alla tech conference europee di Le Web del 2014 mise subito in chiaro la sua politica economica nel primo discorso concernente tali temi: “Vogliamo accelerare sui temi del digitale e delle startup. Quello che più ci preme è capire come farle crescere e come aiutare i francesi a creare nuove imprese. Voglio essere sicuro che nei prossimi anni la Francia sarà in grado di creare migliaia di nuove imprese, e che siano in grado di rimpiazzare quelle vecchie. Ma cercherò anche di proteggere le persone che vogliono accettare il rischio di fare impresa innovativa”[4]. Grazie alla legislazione che Macron ha fatto approvare nel 2015 dal governo Hollande, e che porta il suo nome, in Francia per creare una startup servono in media 4 giorni. Un giorno in meno rispetto alla Gran Bretagna e 7 in meno rispetto alla Germania. Ma non è solo la facilità di creare un’impresa quello che ha fatto la differenza. La Francia nel 2011 ha creato l’Ambition Numerique Fund[5], fondo di venture capital supportato da Caisse des depots et consignations, la Cassa depositi e prestiti d’Oltralpe, e Bpifrance, banca pubblica di investimento. 300 milioni da investire in startup, grazie anche al programma La FrenchTech, una rete di 9 incubatori e acceleratori locali ad alto potenziale di crescita. Due anni dopo ne sono stati mobilitati altri 300 milioni. In 5 anni, si legge sul sito della Cdd (Caisse des depots), hanno investito in 35 startup 150 milioni, supportato aziende che hanno creato 3mila posti di lavoro. A proposito delle grandes écoles e delle licornes che stanno dietro al fenomeno delle startup ne parla magistralmente Andrea Goldstein per il Sole24Ore[6]. La Francia rappresenta nel panorama europeo una fucina di innovazione in merito al tema delle startup. Riguardo l’Italia, i dati di Movimprese-infocamere del 2021 mostrano 5.164.831 imprese attive, 14.457 startup innovative, 2.281 PMI innovative e 52 incubatori in Italia (Ministero Sviluppo Economico, dati al 24/4/2022). I problemi culturali ed economici precedentemente posti spiegano i presupposti con i quali l’economia nazionale e più specificatamente meridionale deve relazionarsi. Non sorprende, sia perché è la regione più popolosa sia perché è quella con il Pil maggiore, che la Lombardia sia la realtà che ospita il maggior numero di startup innovative. La seconda regione per numero di startup innovative è il Lazio con 1.700, seguito dalla Campania con 1.290. I numeri assoluti sembrano indicare che per l’ecosistema non valga quella divisione geografica dell’Italia che vede il nord sviluppato e il Mezzogiorno arrancare, secondo le stime del MISE del 2021.

Immagine 1. Dati disponibili al seguente link: https://public.tableau.com/views/Ecosistemastartup3/Dashboard1?:language=it-IT&:embed=y&publish=yes&:display_count=n&:origin=viz_share_link

La Sicilia e le Startup

I dati sulle imprese siciliane attive sono facilmente reperibili da Movimprese e presentano una Sicilia polarizzata, come intuibile, nei due poli economici e politici dell’isola: le province di Palermo e Catania.

Immagine 2. Dati disponibili al seguente link: https://public.tableau.com/shared/9RJTC24YG?:toolbar=n&:display_count=y&:origin=viz_share_link&:embed=y

Rispetto alle 382.473 imprese attive in Sicilia (84.230 a Catania), però, solo 683 sono le Startup innovative, 75 le PMI innovative ed un solo incubatore di startup. La riluttanza al fenomeno è un problema, certamente, figlio della diseguaglianza economica che divide lo stivale in due parti ma anche della resistenza culturale all’innovazione ed allo sviluppo dell’impresa privata, spiegato antecedentemente. Secondo la classifica stilata dal Global Ecosystem Report[7] la città di Catania, secondo dei parametri che tengono conto in proporzione delle dovute differenze quantitative e qualitative delle città in analisi, si classificherebbe al settimo posto tra le città in Italia con un ecosistema favorevole alle startup.

Immagine 3. Dati disponibili al seguente link: https://report.startupblink.com/

Merito di tale risultato, a tratti miracoloso, va dato al ritorno dei cervelli nel territorio catanese (basti pensare all’Hub Free Mind Foundry, creato dall’esperienza di Simone Massaro) ed al certosino lavoro condotto dall’Università di Catania in continua interazione sistemica con l’Università di Palermo. Dei bottom-up, pertanto, generati dall’amore di giovani imprenditori e dalla competitività studentesca negli ambienti universitari. Il contesto economico, soprattutto in determinati mercati (ne parla da anni, magistralmente, il professore Rosario Faraci, a proposito dell’importanza della ST affinché possa emergere un cluster di startup ad essa associata) potrebbe proiettare la città metropolitana verso scenari di alto rilievo nazionale ed internazionale. I problemi che ne ostacolano il progresso sono economici e culturali. La classe imprenditoriale delle passate generazioni preferisce investire in altri mercati e quando dispone di spazi inutilizzati (magazzini, immobili di proprietà) sceglie inefficientemente di lasciarli vuoti precludendo la possibilità di considerare alternative avanguardistiche e (possibilmente) redditizie che rappresentano, senza dubbio, il futuro del mercato mondiale e la realtà per molti paesi più avanzati. I nemici delle startup sono la riluttanza al cambiamento e la scarsa cultura circa lo sviluppo della libera impresa e questo spiega il motivo per cui la maggior parte degli hub nascano nei punti nodali delle reti politiche e commerciali, come Roma e Milano, ove investitori e giovani innovatori hanno la possibilità di entrare in contatto e soddisfare le proprie richieste. L’imprenditore è un innovatore che sogna di cambiare il mondo e spesso ci riesce: spegnere la fiamma o ostacolarne l’anima che l’alimenta, potrebbe essere un pericoloso passo indietro verso i nostri incubi del passato.


[1] Stark, R. (2005). The victory of Reason: How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success

[2] Beates, R.H., Lien, D. (1985). A note on Taxation, development and representative government

[3] Heritage Foundation (2021). Disponibile al seguente link: https://www.heritage.org/index/explore

[4] Intervista completa disponibile al seguente link: https://youtu.be/qfAOrxGG3xU

[5] Sito disponibile al seguente link: https://www.bpifrance.fr/Qui-sommes-nous/Nos-metiers/Fonds-propres2/Fonds-directs-Bpifrance/Capital-Innovation/Le-Fonds-Ambition-Numerique

[6] Goldsten, A. (2022). Capitali, scuole e incubatori dietro le startup francesi. IlSole24Ore. Disponibile al seguente link:  https://www.ilsole24ore.com/art/capitali-scuole-e-incubatori-dietro-start-up-francesi-AEqmLJAB

[7] Disponibile al seguente link: https://report.startupblink.com/

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